Sento tutto ovattato,
un semi silenzio.
Sarà per il fatto che le voci
mi arrivano flebili da dietro
una mascherina.
Oppure che so, le auto, le moto
i loro rombi sono un rimasuglio
di un tempo prima,
non di adesso.
Ora sulle strade c’è solo il vuoto,
una esasperazione di una calma.
Voglio voci, voglio suoni
voglio il chiasso,
quello vero,
buono,
quello fatto di rumori nel vento,
non via etere.
Risate e campane,
e calpestii
sull’asfalto, sulle foglie secche.
Il baccano sotto i portici
di bevitori
felici e caotici,
e il tonfo a terra
di uno di loro.
Voglio tornare a percepire
il rumoroso silenzio del mimo
all’angolo delle piazze,
le note del suo invisibile violino.
Lo stridio dell’auto in frenata
e lo scoppio di una marmitta
elaborata,
i rimbalzi insistenti di una palla
su un campetto.
Il venditore ambulante
e il suo tonante dialetto
che si eleva sulla folla.
Voglio ascoltare
lo scalpiccìo sulla breccia
di una donna che corre
e lascia di lei
una vaga traccia…
La mia vita è là fuori
e non all’interno di un monitor,
di una periferica.
Io ho bisogno di esplodere
e non di implodere
all’interno di una scatola
di plastica.
Voglio che i miei timpani tornino
a vibrare
e le mie mani a toccare
ad accarezzare,
ad afferrare tutto quello che c’è
oltre quel metro di distanza,
a sentire non una voce soltanto
ma cento mille un milione,
il fragore di corpi e di anime
e di cuori
differenti.
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